L’esercizio della funzione giustiziale attribuita alla pubblica amministrazione e l’acquis comunitario: la forma non prevale sulla sostanza (analisi critica all’Adunanza Plenaria n. 7/2015)

1. Il problema interpretativo

Il Consiglio di Stato ha di recente affermato che “Le considerazioni svolte da questa Adunanza Plenaria e dalla giurisprudenza della Corte delle Leggi e della Corte di Legittimità sulla portata sostanziale delle modifiche apportate alla disciplina dell’istituto, e sulla conseguente riconducibilità a dette novità del superamento della connotazione amministrativa del rimedio, impediscono di ritenere che anche alle decisioni rese in precedenza possa essere riconosciuta una valenza giurisdizionale … Si deve infatti convenire che non viene in rilievo una revisione interpretativa di portata retroattiva, ma una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di «funzione giurisdizionale» nel significato pregnante dell’art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1” (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 16/7/2015 n. 7).

Il supremo consesso, dunque, se da un lato, afferma il carattere “sostanzialmente giurisdizionale” del ricorso straordinario nella sua attuale conformazione, per l’effetto appunto di quanto disposto dall’art. 69 della legge n. 69/2009 (sulla vincolatività del parere espresso dal Consiglio di Stato e sulla legittimazione dello stesso Consiglio a sollevare, in quella sede, una questione di legittimità costituzionale), dall’altro, esclude, invece, che quel rimedio giustiziale avesse l’efficacia sostanziale di un provvedimento giurisdizionale nella sua originaria versione, ante novella del 2009.

Quantunque probabilmente sia un problema di retroguardia, coinvolgendo prevalentemente situazioni decise in un passato sempre meno prossimo (ancorché l’inapplicabilità dello ius superveniens ai ricorsi proposti prima della riforma dell’istituto non consenta di declinare semplicemente al passato la questione ermeneutica), vale forse la pena d’indugiare sulla conclusione cui è giunto ora il Consiglio di Stato sulla natura sostanzialmente amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, quando ancora il parere del Consiglio di Stato poteva essere superato da una contraria determinazione del Consiglio dei Ministri.

Ciò perché quella soluzione difficilmente si concilia con la logica comunitaria, così come espressa, proprio con riferimento al nostro istituto di diritto interno, dalla Corte di giustizia, nella sentenza Garofalo (cfr. Corte di giustizia, Sez. V, sentenza 16/10/1997, in cause riunite da C-69/96 a C-79/96), e che ha diversamente statuito sulla natura giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (anche nella sua originaria versione), ancorché dia atto della possibilità di una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato su conforme e motivata deliberazione del Consiglio dei Ministri.

E anche perché l’attribuzione di una siffatta portata innovativa alla riforma del 2009 è antinomica al disposto dell’art. 102, comma 2, della Costituzione, che vieta d’istituire giudici straordinari o giudici speciali (cfr. F. G. Scoca, Osservazioni sulla natura del ricorso straordinario al Capo dello Stato, in Giur. It., 2013, 2374); sicché, delle due l’una: o quel ricorso ha sempre avuto natura giurisdizionale, giustificandosi allora la novella ai sensi della sesta disposizione transitoria della nostra Carta costituzionale, che, appunto, impone la revisione degli organi speciali di giurisdizione già esistenti all’entrata in vigore della Costituzione (cfr., in questo senso, Corte di cassazione, Sez. un., sentenza 19/12/2012, n. 23464 ); o, altrimenti, la novella del 2009, avendo costituito un nuovo giudice speciale, sarebbe costituzionalmente illegittima.

Si tratta, dunque, di stabilire se la possibilità (ante novella) del Consiglio dei Ministri di conformare il giudizio per superiori esigenze d’interesse pubblico (ciò che nell’originaria versione del ricorso straordinario consentiva di derogare al dictum del Consiglio di Stato) sia davvero il discrimine tra un’attività in senso lato giurisdizionale e un’attività amministrativa di carattere contenzioso (cfr. Corte costituzionale, sentenza 21/7/2004, n. 254), quantomeno nei limiti di ciò che rileva ai fini dell’effetto utile delle norme europee, e di come esso condiziona l’autonomia processuale degli Stati membri.

2. La giurisprudenza comunitaria

La Corte di giustizia si è pronunciata più volte sul tema, delineando con le sue statuizioni le caratteristiche di un “organo giurisdizionale”, agli effetti di quanto ciò rileva sulla legittimazione al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.

Peraltro, come bene evidenziato nelle conclusioni dell’avvocato generale nella causa 61-65, nell’individuazione degli organi giurisdizionali funzionale a identificare i soggetti legittimati al rinvio pregiudiziale, l’interpretazione della Corte di giustizia “potrebbe anche non coincidere, in certi casi, con quella della legge nazionale, le due sfere essendo distinte [essendo] possibile che la necessità d’interpretare e di applicare uniformemente il trattato … porti a riconoscere natura di «giurisdizione», ai sensi dell’articolo [267 TFUE] a un organismo che la legge del paese cui esso appartiene non considera esplicitamente come tale”(conclusioni dell’avvocato generale Joseph Gand nella causa 61-65, Goebbels Vaassen c. Beambtenfonds voor het Mijnbedrijf).

Inoltre, come precisato da autorevole dottrina, “la nozione di «giurisdizione», ai sensi della disposizione in esame del TFUE, è comunque nozione comunitaria e da intendere in senso funzionale. Con la conseguente prevalenza dell’approccio casistico e limitato rilievo di considerazioni dogmatiche” (cfr. M.P. Chiti, La tutela giurisdizionale, in AA.VV., Diritto amministrativo europeo, Milano, 2013, pag. 495).

Da principio, con la sentenza Vaassen-Goebbels, che – a detta dell’avvocato generale Marco Darmon nelle sue conclusioni nella causa C-24/92 “costituisce la pietra miliare della … costruzione giurisprudenziale in materia” – la Corte di giustizia ha affermato che, al fine di individuare un organo giurisdizionale, sono sufficienti: il fondamento legale, il suo carattere permanente, la giurisdizione obbligatoria, la procedura in contraddittorio e l’applicazione di norme giuridiche (cfr. Corte di giustizia, sentenza 30/6/1966, in causa 61-65).

La Corte di giustizia vi ha, poi, aggiunto quello dell’indipendenza (cfr. Corte di giustizia, sentenza 11/6/1987, in causa 14/86, Pretura di Salò; requisito questo meglio specificato nella successiva sentenza 30/3/1993 in causa C-24/92, Corbiau, ove appunto si legge che “la nozione di giudice riveste un carattere comunitario e che, per la sua stessa natura, può designare solo un’autorità che si trova in posizione di terzietà rispetto a quella che ha adottato la decisione oggetto del ricorso”).

Sicché, a conclusione del suo percorso interpretativo, la giurisprudenza della Corte si riassume nella seguente massima: [a individuare un organo giurisdizionale sono sufficienti] l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente” (cfr. Corte di giustizia, sentenza 17/9/1997, in causa C-54/96, Dorsch Consult).

Per vero, il procedimento in contraddittorio è meramente indiziario della natura giurisdizionale dell’organo: nella sentenza Politi (cfr. Corte di giustizia, sentenza 14/12/1971, in casa 43/71) la Corte di giustizia ha, infatti, affermato che la mancanza del carattere contraddittorio del procedimento non fosse impeditivo dell’attribuzione all’organo giudiziario della legittimazione al rinvio pregiudiziale, perché “la mancanza del carattere contraddittorio è, nell’ambito dei procedimenti sommari nei quali il convenuto non compare, compensata dalla totale imparzialità del giudice e dalla sua indipendenza nei confronti sia della controversia sia delle parti in causa” (cfr. conclusioni dell’avvocato generale Marco Darmon nella causa C-24/92).

Infine, con specifico riguardo al tema oggetto d’indagine, con la sentenza Garofalo, la Corte di giustizia ha affermato che “il ricorso straordinario e il ricorso giurisdizionale al tribunale amministrativo regionale [sono] entrambi dotati delle comuni caratteristiche giurisdizionali fondamentali … per di più, sia il ricorso straordinario sia il ricorso amministrativo giurisdizionale ordinario prevedono un contraddittorio e garantiscono l’osservanza dei principi di imparzialità e di parità fra le parti. Per quanto riguarda il ricorso straordinario … la consultazione del Consiglio di Stato è obbligatoria e … il suo parere, esclusivamente basato sull’applicazione delle norme di legge, costituisce il progetto della decisione che verrà formalmente emanata dal Presidente della Repubblica italiana. Tale parere, comprensivo di motivazione e dispositivo, è parte integrante di un procedimento che è l’unico che possa consentire, in quella sede, la risoluzione del conflitto sorto tra un singolo e la pubblica amministrazione … Infine, il Consiglio di Stato è un organo permanente, imparziale e indipendente … Risulta dall’analisi che precede che il Consiglio di Stato, quando emette un parere nell’ambito di un ricorso straordinario, costituisce una giurisdizione ai sensi dell’art. 177 del Trattato” (cfr. Corte di giustizia, sentenza 16/10/1997, in cause riunite da C-69/96 a C-79/96).

La Corte di giustizia, ancorché senza motivare sulla legittimazione del Consiglio di Stato in sede consultiva a introdurre una domanda di interpretazione in via pregiudiziale, si è pronunciata direttamente sulla questione insorta nell’ambito di un ricorso straordinario con sentenza 18/11/2003, nella cause riunite C-292/01 e C-293/01, Albacom e Infostrada.

Il principio è, poi, stato di recente ribadito nella sentenza 23/12/2009, in causa C-305/08, Conisma, ove, appunto, si legge che “il Consiglio di Stato, quando emette un parere nell’ambito di un ricorso straordinario, costituisce una giurisdizione ai sensi dell’art. 234 CE”.

Sicché la giurisprudenza comunitaria, sulla questione d’interesse, è consolidata.

3. La giurisprudenza nazionale

Il pensiero dei giudici nazionali è didascalicamente riassunto nella recente giurisprudenza del giudice della nomofilachia: “Come la dottrina non ha mancato di rilevare, la «ambivalenza» del ricorso straordinario deriva, storicamente, dalla diversa funzione che esso ha via via svolto, quella originaria di strumento di «tutela ritenuta», e comunque di tutela amministrativa, e quella di rimedio giustiziale tendente alla giurisdizionalità, anticipatorio della giurisdizione amministrativa e quindi concorrente con essa, in termini di alternatività …, a seguito della creazione e del consolidamento della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo … già con la sentenza n. 3141 del 1953 le Sezioni Unite, cassando per difetto di giurisdizione la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza in relazione a decreti di accoglimento di ricorsi straordinari, rimasti inadempiuti, hanno ritenuto, a conferma dell’«insegnamento tradizionale», ostativa alla esperibilità di quel giudizio la natura amministrativa del provvedimento e, pur senza escludere l’obbligo della p.a. di uniformarsi ad esso, ne hanno inferito che un tale obbligo non abbia il carattere assoluto e vincolante proprio del giudicato, connaturato con le caratteristiche proprie dell’attività giurisdizionale, discendendo invece dalla posizione di preminenza o di supremazia che spetta al Capo dello Stato, sì che la sua efficacia è circoscritta nell’ambito della stessa sfera dell’amministrazione, senza avere rilevanza esterna e senza dare luogo a quella forma tipica di coercizione in via eteronoma che è costituita dall’esecuzione in via giurisdizionale. La questione si è nuovamente proposta a seguito della sentenza della Corte di giustizia 16 ottobre 1997, in cause riunite C-69/96 e 79/96, che ha dato ingresso alle questioni d’interpretazione di norme comunitarie, sollevate dal Consiglio di Stato in sede di parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato, riconoscendo natura di giudice nazionale a detto organo anche in tale sede; ma le Sezioni unite, con sentenza n. 15978 del 2001, hanno ribadito il precedente orientamento escludendo che i decreti con i quali sono decisi i ricorsi straordinari abbiano natura giurisdizionale e possano essere assimilati alle sentenze passate in giudicato [principalmente, perché] il procedimento promosso con il ricorso straordinario ha per protagonista un’autorità amministrativa, che non è neppure vincolata in modo assoluto dal parere espresso dal Consiglio di Stato, potendo anche risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione delle norme di diritto, così venendo a mancare i requisiti indefettibili dei procedimenti giurisdizionali, cioè il loro celebrarsi dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, oltre che soggetto esclusivamente al diritto vigente (art. 111 Cost., comma 2, e art. 101 Cost., comma 2) …” (cfr. Corte di cassazione, Sez. Unite, sentenza 28/1/2011, n. 2065).

In effetti, anche la Corte costituzionale ha escluso la natura giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, proprio affermando che “Questa conclusione è ineludibile qualora si noti che l’art. 14, primo comma, del d.p.r. n. 1199 del 1971 stabilisce che, ove il ministro competente intenda proporre (al Presidente della Repubblica) una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre l’affare alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, provvedimento quest’ultimo, per la natura dell’organo da cui promana, all’evidenza non giurisdizionale” (cfr. Corte costituzionale, sentenza 21/7/2004, n. 254), concludendo, in seguito, in senso contrario, in esito alla novella del 2009, proprio in ragione del fatto che “L’acquisita natura vincolante del parere del Consiglio di Stato, che assume così carattere di decisione, ha conseguentemente modificato l’antico ricorso amministrativo, trasformandolo in un rimedio giustiziale, che è sostanzialmente assimilabile ad un «giudizio» …” (cfr. Corte costituzionale, sentenza 2/4/2014, n. 73).

Con il provvedimento oggetto di commento il Consiglio di Stato si è uniformato a questo indirizzo, affermando che “… la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all’autorità giurisdizionale” (il cambio di rotta è, per vero, segnato dall’Adunanza Plenaria, con le due coeve sentenze nn. 9 e 10 del 6/5/2013).

Nel passato, però, proprio in ragione della pronuncia della Corte di giustizia nel caso Garofalo, il Consiglio di Stato aveva espresso il diverso avviso che “… la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affrontato e risolto funditus la questione della natura giurisdizionale del parere emesso dal Consiglio di Stato nell’ambito di un ricorso straordinario, stabilendo che il Consiglio di Stato, quando emette tale parere, costituisce una giurisdizione ai sensi dell’art. 177 del Trattato istitutivo dell’Unione. A tale conclusione concorrono considerazioni che attengono all’indipendenza e preminenza del Consiglio di Stato, all’obbligatorietà della sua giurisdizione, nonché all’esistenza del contraddittorio all’interno della procedura. A tale qualificazione va attribuita forza vincolante per l’interprete poiché, per costante giurisprudenza della Corte di giustizia, le decisioni dalla stessa emesse costituiscono fonti primarie di diritto comunitario, abilitate ad introdurre norme giuridiche prevalenti sul diritto interno, di rango sostanzialmente allineato a quello dei precetti costituzionali e, in quanto tali, idonee anche ad innovare stabilmente la qualificazione di istituti del diritto interno” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15/12/2000, n. 6695).

4. La dottrina

La dottrina in argomento è sterminata, il richiamo è nei limiti di quanto utile a sorreggere la conclusione che meglio si accorda all’acquis comunitario.

Ebbene, autorevole dottrina si è espressa in modo tranciante sul tema oggetto d’indagine, affermando, a commento dei ripensamenti giurisprudenziali che pretendevano di giustificarsi in ragione della novella del 2009, che “il ricorso straordinario è un «rimedio giustiziale amministrativo: è cioè quello che, a mio parere, è sempre stato … Il parere non era nemmeno prima della modifica introdotta nel 2009, ossia quando non era vincolante, un mero atto istruttorio: per discostarsene occorreva una decisione difforme del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente. Era comunque una decisione, anzi la decisione della controversia, anche se non immutabile. Pertanto, anche prima della legge del 2009, poteva essere riconosciuta l’esistenza di un «giudizio» sulla controversia introdotta con il ricorso straordinario” (cfr. F.G. Scoca, La Corte costituzionale e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in Giur. Cost., 2014, 2, pag. 1476).

In effetti, “… i pareri del Consiglio di Stato sui ricorsi straordinari hanno sì carattere formale di pareri, ossia di atti «consultivi», ma dal punto di vista sostanziale presentano gli stessi contenuti di una decisione (cfr. art. 1 d.p.r. n. 1199/1971) … essi si risolvono nell’affermazione della fondatezza o meno del ricorso” (A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2010, pag. 163).

Sicché, è senz’altro utile il richiamo all’insegnamento classico, che distingue la funzione giurisdizionale nel suo profilo soggettivo/sostanziale, intesa quale attività che modifica le situazioni giuridiche dei soli destinatari e non anche quelle dell’autore dell’atto stesso (com’è evidentemente per la decisione del ricorso straordinario), da quello oggettivo/formale, che discrimina l’attività esecutiva da quella giurisdizionale in ragione della forma dell’atto che condiziona la sua possibilità di produrre effetti giuridici, che variano d’intensità, appunto, a secondo della forma dell’atto attraverso cui si estrinseca una funzione (legge, sentenza, provvedimento amministrativo), e che individua l’efficacia formale dell’atto giurisdizionale nella sua possibilità di divenire immutabile una volta passato in giudicato (cfr. F. Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1959, pag. 44).

5. Spunti ricostruttivi

Il ricorso straordinario, quale rimedio giustiziale amministrativo somministrato da un giudice operante all’interno dell’amministrazione (quale consulente del governo) ma con garanzie di terzietà e d’indipendenza da essa, ha sempre avuto le caratteristiche che – nell’ambito della giurisprudenza comunitaria – consentono di qualificare il Consiglio di Stato, nell’esercizio di quella sua funzione consultiva, quale organo giudiziario.

Invero, entrambi gli organi di vertice della nostra magistratura si sono all’unisono espressi nel senso che l’“apporto consultivo del Consiglio di Stato [sia] connotato da una suitas giurisdizionale” e che “è esercizio della giurisdizione [il] parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell’atto impugnato”, donde quel parere è in realtà “un giudizio formulato da un organo giurisdizionale” (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., 6/5/2013, n. 9, e, in senso analogo, Corte di cassazione, Sez. un., 19/12/2012, n. 23464), sia pure escludendo che l’atto finale della procedura avesse natura giurisdizionale, quando ancora il parere espresso dal Consiglio di Stato non era vincolante per il Presidente della Repubblica.

Emerge in tal modo con chiarezza che il Consiglio di Stato ha sempre (anche prima della novella del 2009) esercitato una funzione giurisdizionale, essendo semmai la cesura tra la fase del procedimento svolta dinanzi a esso e quella infine conclusiva dinanzi al Presidente della Repubblica (tra le due eventualmente frapponendosi la deliberazione del Consiglio dei Ministri) a impedire di attribuire la natura giurisdizionale anche al decreto decisorio.

Un conto, dunque, è affermare la natura (sostanzialmente) giurisdizionale della funzione esercitata dal Consiglio di Stato in sede consultiva nell’ambito del procedimento (amministrativo) di decisione del ricorso straordinario, altro è sostenere tout-court la natura (formalmente) giurisdizionale di quella decisione in contrapposizione con “la natura amministrativa della procedura e dell’atto che la definisce” (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen. n. 9 citata).

Indubbiamente, la questione non è già che sia attività amministrativa piuttosto che giudiziaria, bensì che si tratti di rimedi giustiziali (anche i ricorsi amministrativi lo sono) all’interno dei quali operi un organo terzo e indipendente, nella ricorrenza di tutti gli altri elementi caratterizzanti un “organo giurisdizionale”: l’origine legale, il carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, la decisione sulla base di norme giuridiche.

Il problema è di agevole soluzione solo se si consideri quanto sostenuto nelle conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer nella controversia Garofalo, il quale aveva correttamente evidenziato che “La lettura della questione mostra, a prima vista una certa asimmetria, poiché si chiede letteralmente se nella nozione di organo possano includersi un procedimento o alcuni procedimenti … La risposta immediata dovrebbe essere negativa: il termine «organi giurisdizionali non può essere interpretato nel senso che comprende un «procedimento» qualsiasi. Per definizione, gli organi giurisdizionali sono istituzioni pubbliche o, in generale, centri di decisione giurisdizionale, che agiscono attraverso determinati procedimenti. Però è ovvio che non è possibile identificare gli «organi» con i «procedimenti» …” (in effetti, la questione pregiudiziale formulata dal Consiglio di Stato era se “… il termine «giurisdizione» debba essere interpretato in senso estensivo, e ciò comprendendovi non solo le sedi giurisdizionali propriamente definite come tali negli ordinamenti nazionali, ma anche quelle procedure amministrative contenziose caratterizzate – oltre che dall’imparzialità, dalle garanzie del contraddittorio, ecc. – anche dall’irrevocabilità ed immodificabilità della decisione e dalla sua insindacabilità da parte di ogni altra autorità amministrativa e giurisdizionale”).

Sicché (quantomeno in una logica comunitaria) non importa la natura del procedimento, bensì la funzione che all’interno di quel procedimento svolge l’organo che pretende d’essere (un “organo giurisdizionale”, in quanto tale) legittimato a interloquire con la Corte di giustizia nell’ambito del procedimento di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.

Solo un errore di prospettiva, quindi, può condurre l’Adunanza Plenaria ad affermare che la novella del 2009 ha comportato “una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di «funzione giurisdizionale» nel significato pregnante dell’art. 102 Cost. comma 1, e art. 103 Cost. comma 1” (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen. n. 7/2015 citata).

Invero, il decreto del Presidente della Repubblica ha sempre (prima e dopo la novella del 2009) natura amministrativa, e il Consiglio di Stato (anche in questo caso sia prima sia dopo la novella) ha sempre operato come “organo giurisdizionale”.

Ciò che conta è, infatti, il “soggetto… che agisce attraverso il procedimento”, come appunto evidenziato dall’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer. E come quel soggetto si trova a decidere all’interno di quel procedimento; se cioè esso, nell’esercizio di quella sua particolare funzione all’interno di un procedimento che pure ha caratteristiche amministrative, nondimeno operi non occasionalmente e in modo indipendente (perché non si tratta, comunque, di giustizia ritenuta, ancorché sia un’ipotesi – probabilmente l’unica – di “tutela della giustizia nell’amministrazione” ex art. 100 Cost.), in virtù di una previsione legale, nell’ambito di una giurisdizione obbligatoria, e decida la controversia nel contraddittorio tra le parti sula base di norme giuridiche e non su criteri di opportunità, secondo appunto l’insegnamento della Corte di giustizia, bene riassunto nella sentenza Dorsch Consult.

Caratteristiche queste che certo connotavano l’esercizio della funzione consultiva assegnata al Consiglio di Stato anche prima della novella del 2009, che ha inciso solo sulle caratteristiche del procedimento di deliberazione del provvedimento finale (esaltando i suoi lineamenti giurisdizionali) ma non ha in nulla modificato il sub-procedimento di formazione del parere del Consiglio di Stato.

Del resto, la stessa Adunanza Plenaria, nella sentenza oggetto di commento, afferma che “la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum [il provvedimento del Presidente della Repubblica] è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all’autorità giurisdizionale”, in tal modo confermando che il Consiglio di Stato in sede consultiva, anche prima della novella del 2009, era, appunto, un “organo giurisdizionale” svolgente, all’interno del procedimento amministrativo, una funzione giurisdizionale: avendo, appunto, la riforma dell’istituto solo inciso sul collegamento procedurale tra il provvedimento decisorio provvisorio del Consiglio di Stato (di chiara natura giurisdizionale) e quello definitivo del Presidente della Repubblica (di carattere amministrativo), eventualmente diversamente conformato dalla difforme deliberazione del Consiglio dei Ministri.

A escludere la rilevanza dei principi espressi nella sentenza Garofalo per risolvere il problema dell’efficacia temporale della novella del 2009, l’Adunanza Plenaria certo sbaglia nel riferire che la “Corte di giustizia ha considerato il Consiglio di Stato che esprime il parere in sede di ricorso straordinario una giurisdizione legittimata a sollevare questione pregiudiziali di carattere interpretativo ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE (art. 267 del Trattato per il funzionamento dell’Unione Europea), mettendo l’accento … sulla definitività dell’esito della stessa”.

Per vero, quel riferimento (alla definitività del parere espresso dal Consiglio di Stato) non esiste nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che, invece, a individuare un organo giurisdizionale ritiene sufficienti “… l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente” (cfr. Corte di giustizia, sentenza 16/10/1997, in cause riunite da C-69/96 a C-79/96, Garofalo).

Sicché – secondo l’originale intuizione di Benvenuti – quello che la Corte di giustizia non considera nella sua definizione di “organo giurisdizionale” (e che invece l’Adunanza Plenaria enfatizza nell’erroneo assunto di essere in tal modo in linea con la giurisprudenza comunitaria) è la natura oggettiva del provvedimento che conclude il procedimento e che si focalizza sull’efficacia formale dell’atto giurisdizionale (la sua possibilità di divenire immutabile), rilevando a tal proposito solo il profilo soggettivo della funzione giurisdizionale che in quel procedimento amministrativo è sostanzialmente esercitata dal Consiglio di Stato e che si incentra sulla terzietà (sulla sua estraneità al rapporto su cui incide) del soggetto che decide.

Vero è che la definizione di “organo giurisdizionale” è funzionale solo a identificare i soggetti legittimati al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE, sicché è sempre possibile una diversa valutazione ad altri fini (cfr. le conclusioni dell’avvocato generale Joseph Gand nella causa 61-65, cit.).

Vi è, però, anche da considerare che l’esclusione di quell’attributo (di organo giurisdizionale) al Consiglio di Stato nella decisione della controversia (rectius: nella formulazione del parere) su di un ricorso straordinario ante novella del 2009 condurrebbe altresì a negare la sua legittimazione (non solo al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, rispetto al quale – come bene evidenziato dal Consiglio di Stato nella sua sentenza n. 6695/2000 cit. – la giurisprudenza Garofalo equivale a norma giuridica prevalente sul diritto interno, ma anche) ad adire la Corte costituzionale sulla questione di legittimità di una norma di legge.

Con il che si realizzerebbe un’aporia sistematica.

Da un lato, infatti, il giudice nazionale, secondo la c.d. teoria dei controlimiti, sarebbe chiamato ad applicare la norma UE solo nei limiti in cui essa non violi i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, nel qual caso sarebbe sempre necessario assicurare il sindacato della Corte costituzionale sulla perdurante compatibilità dei Trattati con i predetti principi fondamentali (cfr. Corte costituzionale, sentenza 18/9/1973 n. 183, Frontini).

D’altro canto, però, nell’ipotesi che un “organo giurisdizionale” fosse tale solo per l’ordinamento europeo e non per quello nazionale, un siffatto giudice, per così dire, a metà, anche in simili improbabili situazioni, si emanciperebbe dal controllo della Corte costituzionale che pure essa si è riservato, facendo sempre prevalere la norma UE, potendo la questione di legittimità costituzionale essere sollevata solo “nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale” (cfr. art. 23, comma 1, della legge n. 87/1953).

E ciò costituisce, appunto, un’aporia; salvo si voglia finalmente ammettere la futilità della teoria dei c.d. controlimiti emendando il nostro ordinamento dall’inutile feticcio: ciò che però la nostra Corte costituzionale non pare intenzionata a fare (cfr. sentenza 21/4/1989 n. 232, Fragd).

Quindi, ancorché il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE prevalga sul procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale anche quando la norma nazionale in predicato d’essere incostituzionale sia la mera trasposizione nell’ordinamento interno di una norma UE (cfr. Corte di giustizia, sentenza 22/6/2010, in cause riunite C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli); nondimeno, esso non può sostituirsi al giudizio di legittimità costituzionale, nelle improbabili ipotesi (ma “quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile” – cfr. Corte costituzionale, sentenza Fragd cit.) che, in esito al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sia affermata la validità della norma UE: donde, l’antinomia coinvolgerebbe direttamente i Trattati UE e la nostra Carta e potrebbe persino attentare a uno dei suoi principi fondamentali.

Sicché, non si può con riferimento al medesimo procedimento: (i) affermare l’adesione (doverosa, peraltro) ai principi codificati dalla sentenza Garofalo, (ii) negare che il Consiglio di Stato nell’esercizio della sua attività consultiva sia un “organo giurisdizionale”, e (iii) rivendicare un (improbabile, ma teoricamente possibile) sindacato costituzionale sul superamento dei c.d. controlimiti.

Una volta, poi, che si sia assegnato al Consiglio di Stato, nell’ambito del procedimento di decisione del ricorso straordinario, l’attributo di “organo giurisdizionale” agli effetti di quanto disposto dall’art. 267 TFUE, si pone il problema se la negazione dell’intangibilità (il valore di giudicato) del provvedimento conclusivo del Presidente della Repubblica conforme al parere espresso dal Consiglio di Stato sia euro-compatibile, alla stregua dei noti principi Rewe di equivalenza e di effettività (cfr. Corte di giustizia, sentenza 16/12/1976, in causa 33/76), che condizionano ab externo l’autonomia procedurale, sub specie processuale, degli Stati membri, traducendola in una “competenza procedurale funzionalizzata” (cfr. D.U. Galetta, L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, 2009, pag. 16).

Indubbiamente, il principio dello stato di diritto è uno dei principi fondamentali dell’ordinamento UE e la certezza del diritto costituisce una delle espressioni più pregnanti della rule of law, sicché la decisione assunta da un “organo giurisdizionale” per assumere un sufficiente grado di effettività deve essere suscettibile di passare in giudicato.

Vero è, in effetti, che, in talune eccezionali circostanze, proprio i principi Rewe impongono di rimettere in discussione il giudicato per consentire l’effetto utile dell’effetto diretto delle norme UE (cfr. Corte di giustizia, 18/7/2007, in causa C-119/05, Lucchini), sicché i principi comunitari, a una superficiale lettura, sembrerebbero antinomici rispetto al giudicato.

Altrettanto vero è però che, al di fuori di quelle singolari circostanze (nel caso di specie, il conflitto tra l’inoppugnabilità di una decisione della Commissione UE e il giudicato formatosi su di una sentenza di un giudice nazionale) la statuizione della Corte di giustizia coinvolta nel giudizio attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE deve essere in grado di conformare il rapporto giuridico sostanziale, senz’altro ostacolo (cfr. le conclusioni dell’avvocato generale Léger nella causa Köbler, ove appunto si legge: “… «Res judicata pro veritate habetur»: quello che è stato giudicato è considerato conforme alla verità. Questo principio derivato dal diritto romano è riconosciuto da tutti gli Stati membri nonché nell’ordinamento giuridico comunitario … questo principio si basa sulla necessità di assicurare la stabilità dei rapporti giuridici evitando che contestazioni siano rinnovate all’infinito. Esso s’ispira quindi a una duplice esigenza: la certezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia”; e in modo ancora più tranciante quelle dell’avvocato generale Jacobs nella causa Peterbroeck, ove appunto si afferma che “L’autorità della cosa giudicata rappresenta il livello minimo dell’efficacia vincolante che può essere attribuita a una sentenza”).

Sicché, conclusivamente, non pare che l’assunto da ultimo espresso dall’Adunanza Plenaria superi il vaglio di una verifica di conformità a principi UE, anche nell’ambito della residua “competenza procedurale funzionalizzata” lasciata agli Stati membri, da intendersi quale loro discrezionale facoltà di congegnare il proprio sistema processuale nel solo rispetto dei principi Rewe di equivalenza e di effettività e, soprattutto, senza in alcun modo interferire con il corretto funzionamento del meccanismo del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.


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